Il rock è sempre stato la mia religione.

lunedì 22 febbraio 2010
La mia assenza è dovuta all'impegno da me profuso nella settimana dei concerti. Analizziamoli uno per uno a partire di questa mia personalissima considerazione: la rockstar è come la religione. Dogmatica. O la accetti così come essa ti si propone, o non la accetti. O si o no. Fingi di non vederne gli errori e ne osanni le pubbliche gesta oppure niente, sei fuori e per te non c'è salvezza.

1.Martedì. Un grande Vasco al Filaforum di Assago. Non sono mai stata una grande fan, ma stimo Vasco per la sua imperturbabile fattanza. Alla sua età io non salterei di certo i fossi per la lunga come fa lui. Blasfema la sua versione italiota di Creep dei Radiohead, ma non tanto quanto i fan posseduti che la cantano ignari di cosa sia Creep dei Radiohead.
2. Mercoledì. White Lies all'Alcatraz. Faccio l'errore di mettere una canotta senza spalline e mi tocca pogare con una mano sullo sterno nel tentativo di salvare il salvabile. Grande performance, grande voce, quel miscuglio pagano tra Joy Division, Editors e Strokes che fa incontrare in un Purgatorio senza nome le anime più nobili e le più perdute.
3. Giovedì e venerdì mi perdo i Kasabian nelle date di Milano e Bologna. Lyrics, videoclip e storia della band, che ora siede alla destra degli Oasis nell'Olimpo delle Rockstar, sono la metafora perfetta della salvazione mistica. Mi riferisco soprattutto al video di "Where did all the love go?", trasposizione postmoderna dell'eterno dilemma fra essere ctonio ed essere umano: o per dirla con parole povere, fra amore a pagamento e amore utopico.
4. Riesco a perdermi anche i Veils a Ravenna. Voce oltretombale, lamento esistenziale, nuce del  dilemma dell'uomo contemporaneo: soffrire o non soffrire? Specie se riferito ai gatti che miagolano in giardino. Osannazione massima del mio essere: nessuno meglio di lui avrebbe potuto fare altrettanto.

Considerazione finale. Johnatan Carroll, in "Zuppa di vetro", fa incontrare Dio al suo protagonista. E si scopre che Dio è un orso di pelouche di nome George. Ora, George altri non è che il pelouche del protagonista bambino, e Dio ne ha assunto le sembianze poichè sarebbe stato più facile per il suo interlocutore identificarlo con qualcosa in cui credere ciecamente, e a cui abbandonarsi completamente.
Se questa teoria sulla manifestazione di Dio regge - e secondo me ha basi fondatissime - comincio a credere che un giorno Dio mi si paleserà sotto forma di Ian Curtis. Nel qual caso non ho fretta, giuro, non ho fretta.

Get the London mood.

martedì 2 febbraio 2010
Parlare di Londra è come parlare di impressionismo: è difficile dire qualcosa di intelligente, ma soprattutto, qualcosa che non sia già stato detto. Perciò non lo farò. Mi limiterò a elencare alcuni tips che vi aiuteranno, in caso di trasferta, a sentirvi molto ma molto Londinesi inside.
1. The brown sauce. Siete svegli da dieci minuti e vi stanno apostrofando in una lingua incomprensibile. Voi annuite e sorridete, per compiacere i padroni di casa. Quello che non sapete è che avete appena autorizzato l'omicidio delle vostre papille gustative: pochi minuti dopo vi rifileranno una colazione letteralmente ricoperta di questa sostanza bandita da ogni pianeta della galassia. Tranne il Regno Unito. A quel punto sarà troppo tardi e dovrete buttare giù tutto quanto, continuando a sorridere e annuire.
2. The terrace houses. Dopo questo attacco alla vostra incolumità uscite per fumare una sigaretta e magia, siete catapultati in una scena degna di un film. Porticine colorate, bowindow luminosi, una sfilza infinita di cancellini luccicanti fino in fondo alla strada. E un vento freddo come l'indifferenza a sferzarvi le ossa, una per una.
3. The newspapers. Mentre fingete di non capire cosa dicono alla tv, ma solo per non partecipare all'ennesima discussione sul football in generale, provate a leggere il giornale. In prima pagina, un bel titolone dice che una ragazza è molto risentita con i commessi di Tesco perchè non le hanno permesso di fare la sua spesa in pace e l'hanno buttata fuori a pedate. E solo perchè era in pigiama e pantofole. Ah, la classe.
4. Bansky. Vi imbattete in uno dei suoi graffiti stupendi e lo riconoscete in quanto tale. Poi, da veri turisti, comprate una delle sue tele a Camden Town, anzi ne comprate due perchè c'è lo sconto di cinque pounds.
5. Discutere con un vecchio rocker in un negozio di dischi a Camden Town chiedendogli se sia meglio comprare un vinile coi demo originali degli Undertones o un EP inedito dei Buzzcocks, bevendo sidro caldo,  non ha prezzo. Peccato che il vostro interlocutore sia totalmente ubriaco. Da qualche anno ormai.
6. Inciampare nella metropolitana tornando da Covent Garden per cause alcoliche, alzare lo sguardo, vedere due ragazzi vestiti da puffi e uno da Scooby Doo e sapere che c'è chi sta molto, molto peggio di voi.
7. Andarsene all'inglese. Prendere la decisione, non salutare nessuno e tornare a casa, fermandosi a metà strada per prendere un consolatorio cartoccio di fish and chips. Che vi farà rotolare nel letto tutta notte implorando acqua, mentre nel frattempo gli altri, appena tornati a casa, stanno vomitando anche le pupille implorando pietà.
8.Vedere terminare una discussione sul football con una decisione all'unanimità. Che è rapidamente traducibile in: David Beckham è il più figo di tutti tempi.
9. Non portare occhiali da sole anche se i vostri bulbi oculari cominciano ad emanare lo stesso odore del pollo abbrustolito. Niente. Occhiali. Da. Sole.
10. Non fare foto. Neanche una. Neanche col cellulare. Come se fosse stupido tanto quanto fotografare il vostro stesso citofono. Tanto tornerete presto, no?